Le mie mani erano piccole quando raccoglievo semi di fiori nel cortile di casa, camminando a piedi nudi nell’orto di papà, lo osservavo in quel fazzoletto che a me pareva tutto il suo mondo ed era gran festa quando mi faceva salire sul piccolo rimorchio verde del trattorino di casa, con falce e forcone per andare a “fare il fieno”. Credo siano quegli odori di infanzia che si impregnano a livello di pelle e non vanno più via, nemmeno con le esperienze più faticose dell’età adulta, a influenzare le scelte future.
E’ stato un imprinting che è rimasto sopito per anni come fuoco sotto la cenere, le esperienze di vita mi hanno portato ad avvicinarmi alla città di Torino , nonostante avessi giurato a me stessa che mai avrei ceduto alla vita metropolitana, che sento così invasiva e alienante rispetto ai tempi e silenzi della campagna. Si sa però che, spesso proprio ciò che teniamo lontano, a volte ti cerca e così è stato.
Sono una educatrice mi chiamo Annalisa e lavoro da vent’anni in campo socio assistenziale, negli ultimi dodici in Asl in un servizio per le dipendenze patologiche. Lo scorrere continuo tra colloqui, turni di segreteria, inserimenti in comunità e visite in carcere, tentativi da eroi quotidiani per storie di vita e di morte quotidiane, stereotipi da abbattere e piccoli miracoli, questo è il nostro lavoro, medici, infermieri, educatori, psicologi, assistenti sociali, tutti in prima linea a cercare di recuperare stralci di vita e ridare dignità a persone che dalla vita hanno avuto ben poco.
Ammetto che il nostro lavoro è frustrante perché le difficoltà sono molte e gli ostacoli pure, i risultati arrivano, ma non con la forza di un urugano, bensì con la delicatezza di una pioggia primaverile che scende lentamente e costante.
A luglio 2014 mio padre morì, era malato ma credevo sarebbe stato ancora al mio fianco per tempo e invece nel giro di due giorni peggiorò, il pomeriggio prima di lasciarci ero al suo fianco in pronto soccorso, attendevamo un esito di un esame e mentre lui riposava iniziai a leggere un libro “La rivoluzione del filo di paglia” di Masanobu Fukuoka. Credo sia stato un segno, il testimone che mio padre mi ha lasciato ha germogliato come piccolo seme e a settembre di quello stesso anno la mia vita è cambiata.
Il lavoro dell’educatore è poco conosciuto, non si capisce bene che cosa faccia, insomma noi costruiamo progetti e creiamo rete, stare in ambulatorio per me era soffocante e una notte, nella mia mania di cybernauta, ho letto che nel quartiere dove lavoravo era attivo un grande orto urbano. Lavoro a Mirafiori Sud , quartiere esploso negli anni del boom industriale della Fiat, un quartiere che dagli anni 70 in poi ha visto un aumento notevole delle problematiche sociali, dovuta alla difficile integrazione fra gente sradicata dal sud Italia e messa a lavorare come piccole formichine e a vivere in palazzoni anonimi e con moltissime problematiche; la dipendenza da sostanza è stato il legante di quel luogo, unita a delinquenza e anarchia.
Il quartiere rivendica però una storia antica, che il capitalismo ha voluto soffocare, le lotte operaie hanno connotato quei viali alberati di una forza popolare non da poco, la crisi poi dell’industria ha portato, come ogni cambiamento, l’opportunità di indossare nuove vesti.
Gli orti urbani, come progetto di riqualifica del quartiere, sono stati tra i primi mattoni di questo nuovo vento, dedicati alla Bela Rosin amante del Re. Per lei il sovrano costruì un bellissimo mausoleo a pianta circolare, lì vicino agli attuali orti e ancora sono visibili i ruderi del castello realizzato in onore della residenza regale spagnola di Miraflores da cui la Bela Rosin arrivava; ecco come nasce il nome del quartiere in cui sboccia la storia di ConTOorto.
E’ stato un incastro di occasioni e casualità ,ma dato che credo fermamente che il caso non esista, la nascita di un progetto condiviso fra pubblico e privato è l’evidenza che è possibile lavorare in rete e che le piccole rivoluzioni si fanno dal basso, partendo dai margini.
Un corso di agricoltura sinergica e la collaborazione con la cooperativa sociale Gineprodue, che ha un centro diurno per pazienti con dipendenza patologica, ha tessuto il primo ordito di questo percorso. Non è stato semplice, non sapevamo nulla di agricoltura se non aver visto qualche video su internet, ma la collaborazione con un consulente iniziale e la mia formazione in itinere hanno dato vita a un primo piccolo orto urbano. L’Asl ha posto fiducia in me e nel far partire un laboratorio di agricoltura sinergica, per utilizzare la filosofia della agricoltura naturale come costruzione di un progetto educativo rivolto ai nostri pazienti.
“Curare la terra per curare gli uomini, la sinergia tra le piante e le persone, entrare come gentili ospiti in orto e stare ad osservare ciò che accade”, queste sono le frasi che hanno caratterizzato il nostro lavoro. Non è stato semplice entrare nell’orto urbano, insomma arrivavamo in una dozzina e non c’è voluto molto tempo a sapere che i “miei ragazzi” erano tossicodipendenti e alcolisti, oppure giocatori d’azzardo e a volte tutto assieme. Portavamo un tipo di coltivazione differente, entravamo caricandoci la paglia sulle spalle e il nostro orto aveva forme strane. All’inizio ci prendevano in giro, chiedevano se facessimo i cerchi nel grano, perchè la prima aiuola rialzata prese la forma di una spirale, perché nel primo orto della propria vita non si nega mai a nessuno una spirale sinergica , poi quale miglior modo per esercitarsi sulla pazienza se non entrare dentro e doverla rifare tutta al contrario quando si vuole uscire, senza scavalcare il bancale?
Nel 2016 ci dettero la possibilità di riqualificare una parte che era adibita a discarica di materiale vegetale e legno, si organizzò pertanto un vero e proprio corso di agricoltura sinergica con la Libera Scuola Emilia Hazelip. Eravamo in trenta, una vera squadra che era intenzionata a ridare vita a una pietraia, ricordo ancora l’ultimo giorno del corso le lacrime di chi ricevette l’attestato di primo livello, qualcuno di loro era fermo alla quinta elementare, non vi sono parole per descrivere l’intensità emotiva di quel cerchio.
In permacultura mi hanno insegnato che il margine è un luogo fisico, dove il campo incontra il bosco, un luogo ricco di biodiversità, perché contiene in sé elementi dell’uno ed elementi dell’altro, così a me piace pensare siano i miei pazienti e quell’orto , una zona di margine, saper vedere la bellezza nei margini è la mia sfida, che porto avanti con il progetto di ConTOorto!
Insegno ai ragazzi a osservare, a stare nel canto dell’orto, le piante spontanee non le chiamiamo più erbacce, la semantica ha infatti il suo valore, cerchiamo di convivere con le vespe che occupano abusivamente l’albergo degli insetti, consociamo ortaggi, annuali, biennali, aromatiche e fiori, mettiamo piante sentinelle come i cardi, non potiamo gli alberi , creiamo relazioni di buon vicinato, Rocco, il vecchio barbiere di zona, una istituzione, Nicola che ha quasi 90 anni e ci lascia la sua carriola e non si dà pace su quante erbe lasciamo. Io passo fra i bancali, a volte sono più in ordine a volte meno, la natura ci fa da specchio rispetto al nostro impegno, se siamo stati più presenti o assenti, ma chi osserva solo la quantità di verdura prodotta non sa leggere oltre. In quell’orto ho sentito storie e confidenze che in ambulatorio non sono mai avvenute, ho respirato il senso di gruppo e una energia intensa che molte persone non hanno mai, nella vita, la fortuna di incontrare. Abbiamo la catena delle Alpi e il Monviso che ci salutano in ogni stagione e di inverno quella catena innevata è davvero una bella cornice. Gli ortolani ci accolgono col sorriso, ci regalano verdure , a volte piantini, siamo riusciti anche a fare teatro in orto e un laboratorio per bambini, portato stranieri che erano in visita a Torino, adolescenti a fare lavori di educazione civica. Sul quartiere vi sono mille progetti attivi, siamo in collegamento con la Casa del quartiere di zona, che è dentro un parco e la Locanda ad essa collegata, loro ci imprestano il decespugliatore e a volte regalano piante, noi barattiamo con verdura , qualcuno dei ragazzi mangia gratis in quella locanda che ha un progetto sociale sul quartiere ed offre pasti a chi non può permetterselo.
Alcuni dei pazineti che vengono in orto partecipano anche a un laboratorio di teatro di comunità e fanno parte ora di una compagnia che si chiama PremiPlay, come il bottone di accensione, lo si schiaccia e si inizia una nuova avventura.
Vi sono ancora molti progetti da costruire, portare avanti e migliorare, ma la rete che si è intessuta in questo quartiere mi dice che stiamo davvero parte di una rivoluzione che inizia dai margini.
A fianco degli orti urbani, nello stesso quartiere, una nuova Associazione ha iniziato la riqualifica di 3000 mq di terreno, nasceranno altri 150 orti e un polo didattico al limitare del fiume che lì scorre. La prima cellula sperimentale di orto è nata dalla collaborazione con l’Asl di cui ho avuto l’onore di far parte, in dieci settimane è stato condotto da me, in collaborazione con la Associazione Coefficiente Clorofilla, un corso diffuso di agricoltura sinergica rivolto a 8 pazienti con dipendenza patologica ed è nato un nuovo orto sociale che ha preso il nome di SOS Orto Sinergico.
Un pullulare di sinergie, una integrazione sociale, un tipo di agricoltura che ha come obiettivo quello di ridare dignità alla Terra, Pachamama, Gaia o Madre Natura, in qualsiasi modo si voglia chiamare noi perseguiamo con intento e rigore l’obiettivo di ripristinare la sua auto fertilità.
Non rivoltiamo la terra, non la calpestiamo, non usiamo pesticidi, né nessun trattamento chimico , non concimiamo, ma creiamo quelle condizioni per fare della terra maltrattata, violentata e non ascoltata, come sono i nostri pazienti, una terra che con le cure e la pazienza di un buon genitore, possa riprendere la sua capacità di fertilizzarsi da sola.
La terra coperta e non denudata, dove gli alberi possano comunicare tra loro e con tutte le altre piante, esistono infinite connessioni sotterranee, mutui aiuti, una solidarietà vegetale da cui noi umani presuntuosi dovremmo imparare.
E’ stata una primavera piovosa, a volte cammino nell’orto e osservo le carote selvatiche, il convolvolo, il farinaccio, scruto la bardana, il tagete, il crespino dei campi,molti papaveri e fiordalisi, curioso tra la borragine e la menta di ogni tipo, la forte piantaggine e la testarda gramigna e insieme a lei la potentilla, il rosso e superbo ronice, i rovi con le more, la veronica e la portulaca e ringrazio che così tanta biodiversità sia venuta a trovarci e nuovi progetti frullano nella mia testa, i ragazzi mi guardano, mi conoscono, vedono il guizzo nei miei occhi cerulei e già sorridono perché sanno che nuove avventure li aspettano, questa per noi è permacultura urbana!
2 Comments
Anna Fersula
28 Ottobre 2022 at 7:21Veramente bello,ricco di speranza ,questo articolo. …Lasciamolo ” entrare “cosi.. con la positività che emana….
Annalisa
28 Ottobre 2022 at 9:59Grazie Anna sei molto cara, mi piace scrivere, da sempre, riesco a veicolare ciò che sta in fondo al cuore…